L’inaspettata Luce nascosta dietro alle Ferite

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Expansion I – New York
Scultura in bronzo a cera perduta di Paige Bradley

Ovunque è incisa
quella Voce infinita
che al Centro invita

                                                                                        Panna

Diversi anni fa, quando ancora abitavo in un borgo medievale umbro, proprio attaccata al castello di Sant’Apollinare, in un momento particolarmente triste della mia vita, provai il bisogno di dare forma al dolore, di trovargli un senso. Lo facciamo tutti: ci chiediamo perché ci succede quella cosa, quell’evento, quella perdita, come se il senso potesse aiutarci a cicatrizzare le ferite più velocemente, o magari ad anestetizzare un poco il dolore.
È un moto spontaneo che viene dall’intelligenza del corpo, che è pronto ad assumersi la sua parte di dolore (ha le spalle… larghe, il corpo!), ma non è necessariamente d’accordo nel sobbarcarsi la sofferenza aggiunta tramite il commento alla situazione che noi associamo agli eventi rimuginando con la nostra mente. E la ricerca di senso, in fondo, non è altro che un modo saggio di allineare la mente con il corpo (e il cuore!): invece di chiacchierare “sopra” il dolore, lasciamo che la mente ciarlona si fermi, aprendo uno spazio silenzioso e calmo dentro di noi, che ci consente di ascoltare il dolore del corpo e di lasciarlo parlare con il suo linguaggio, che è semplice: energia, movimento, emozione. Ed ha le sue vie per giungere alla guarigione, molto più semplici ed efficaci di qualsiasi strategia mentale. Le vie del dolore attraverso il corpo sono le stesse del fiore: dalle radici, su per il gambo fino alla corolla, per aprirsi al cielo attraverso i petali. E lasciarci trasformati.

Una delle possibili vie per giungere alla guarigione è l’elaborazione artistica, ma a me piace più dire “procedimento artigianale”, riferendomi anche ad una frase scritta dalla psicologa junghiana Clarissa Pinkola Estès nel suo celeberrimo libro Donne che Corrono con i Lupi (un libro da leggere assolutamente!): “The handcrafted life contains things that are fierce, as well as things that are beautiful” (La vita “artigianale” – fatta a mano – contiene cose crudeli e anche cose belle”).

Nel mio caso, quella volta il risultato dell’elaborazione “artigianale” del dolore è stato un piccolo oggetto, che non oserei chiamare scultura, ma che durante il suo assemblaggio mi ha aiutato ad entrare nel dolore, invece che fuggirlo, e poi ad attraversarlo, a guardarlo negli occhi mentre ci dialogavo corpo a corpo, per scoprire, con grandissima sorpresa, che dietro alla ferita riluceva qualcosa di immenso e radioso, come nella potente scultura che potete vedere in apertura di questo articolo (in seguito vi racconto anche un po’ la storia di quest’opera d’arte).
Come titolo del mio modesto oggetto, durante il suo farsi (la sensazione è stata che si stava creando da solo utilizzando le mie mani), era spontaneamente affiorato l’haiku che apre questo articolo. Un haiku è un componimento di tre versi, di 5, 7 e 5 sillabe rispettivamente, che in genere è molto immediato; sgorga direttamente dal cuore, come una melodia inaspettata, che sorprende anche la mente di chi lo scrive.
Ecco qui sotto qualche fotografia del manufatto in questione.

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Tutto è partito da un vaso di terracotta che si era rotto in tanti pezzi dopo averlo involontariamente lasciato cadere in terra. Non so nemmeno spiegarmi perché, ma fu come se allora avessi sentito una strana somiglianza tra me e quel vaso a pezzi. Con pazienza, provai a rincollarlo e poi mi venne la voglia di mettere in risalto gli spacchi, le crepe, con qualcosa che somigliasse all’oro. Mentre lo facevo, provavo interiormente un senso di sollievo, di riequilibrio, come se quel vaso non si fosse rotto invano. Un terapista dell’arte direbbe senz’altro che riparando il vaso stavo anche risanando me stessa…

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Verso la fine della “riparazione”, l’ultimo pezzo (che corrisponde al buco che si vede nelle immagini) non combaciava più perfettamente. Stranamente, questo pezzo che mi era rimasto in mano a sua volta era composto da tre frammenti, la cui riparazione dorata aveva assunto una forma simile ad una freccia. Fu a quel punto che sentii sgorgare dentro di me il piccolo haiku che parla di un Centro a cui tutto invita.

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Pensando al centro, mi era venuta l’immagine della ragnatela, che in natura serve come trappola per catturare delle prede… e quando si soffre, è come essere in trappola, non è vero? Però nessuno può negare che la ragnatela sia anche un’incredibile prodotto di … ingegno, e chiunque ne abbia vista almeno una imperlata di rugiada al mattino sa che può anche diventare uno dei spettacoli più belli e poetici della natura… Ho quindi preso un vecchio ramo di vite che avevo tenuto da parte e con un bel filo blu mi sono divertita a creare una ragnatela. L’ho cosparsa di piccoli frammenti d’oro, poi ho posizionato su uno dei rametti di vite il triplice frammento di terracotta in modo che la sua freccia dorata indicasse il centro della ragnatela. Ho unito la potatura di vite al vaso riparato… ed ecco fatto! Ho sentito all’istante che l’oggetto era finito, e in qualche modo i pezzi rotti dentro di me si erano anch’essi rincollati…

Proprio in questo momento, mentre sto scrivendo queste parole, sto anche cercando il nome dell’artista che ha creato la commovente scultura che apre l’articolo, e che gira già da un po’ su Internet. Ho così scoperto che è intitolata Expansion ed è uscita dalle mani sapienti di Paige Bradley, che potete visitare sul suo sito.
In un altro sito ho trovato un’ intervista  nella quale l’artista spiega come è nata quest’opera che trovo assolutamente meravigliosa.

Un altro caso di sincronicità! Sentite qua quello che racconta Paige. Dopo aver spiegato come temesse il giudizio del gota artistico newyorchese, molto più propenso, secondo le sue parole, a far esporre artisti “visionari” piuttosto che “figurativi” come lei, racconta come è uscita dal dilemma interiore:
Ho preso una scultura in cera che mi era venuta bene – un pezzo che avevo scolpito con accuratezza per diversi mesi – l’immagine di una donna che medita nella postura del loto, e l’ho fatta cadere sul pavimento (sic!). Ho distrutto qualcosa che io stessa avevo creato. Stavo mollando tutto. Ed era spaventoso. La scultura si è frantumata in tanti pezzi. La prima sensazione è stata: ‘Ma cosa ho fatto?’ Poi, ho avuto fiducia nel fatto che tutto sarebbe andato per il verso giusto, come l’avevo immaginato. Ho fatto uno stampo in bronzo con tutti i pezzi assemblati in modo che galleggiassero un po’ distanti l’uno dall’altro. Poi ho fatto venire uno specialista di illuminazione e insieme abbiamo costruito un sistema di luci che consentisse alla statua di risplendere dall’interno. È venuta pure meglio di quanto pensassi. E la cosa più bella è che Expansion ha un significato profondo per tante persone che l’hanno vista. Ricevo lettere ogni giorno!
Meglio di ogni parola, basta guardare le fotografie di Expansion:

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Expansion                    Artista: Paige Bradley
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Expansion                    Artista: Paige Bradley
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Expansion                    Artista: Paige Bradley
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Expansion                    Artista: Paige Bradley

Anni dopo aver assemblato il mio piccolo manufatto, ho scoperto che in Giappone esiste un’arte molto particolare, chiamata Kintsugi 金継ぎ, “riparare con l’oro”, che consiste nel riparare gli oggetti rotti valorizzandone le spaccature e le crepe con l’oro. La filosofia che sta dietro a quest’arte è la seguente: se qualcosa ha subito una ferita, questa è parte della sua storia, e come tale merita attenzione, va addirittura evidenziata, così da rendere quel qualcosa ancor più bello. Difficile da capire per noi occidentali un po’ fissati con la perfezione, il successo e l’usa-e-getta, vero? Non si tratta, ovviamente, di un morboso attaccamento alla sofferenza, tutt’altro: è saper riconoscere il flusso misterioso che scorre nella Vita stessa, che include insieme l’intero e il frammento, l’integro e lo spezzato, il sano e il malato. Il dolore lascia sempre un segno, è innegabile, ma riconoscere che una volta superato ci lascia più saggi – più belli! – è già guarigione.
La lettura ravvicinata del primo ideogramma 金 – kin, in giapponese, che in cinese si legge jīn, ci rivela anche altri significati profondi. 金 jīn ai giorni nostri significa metallo, oro. Ma in origine indicava una campana di bronzo che unita a tante altre, a mo’ di grande vibrafono o carillon gigante, costituiva un importante strumento musicale rituale.

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Guardate qua sopra, infatti, quanto uno dei pittogrammi antichi di jīn somigli alla campana rituale. Il dolore è anche una vibrazione che in qualche modo “stona”, almeno apparentemente, con la nostra nota armonica di base. Dopo essere colpiti dal “suono” dissonante del dolore, quando la vibrazione cessa, non siamo più gli stessi, come uno stagno nel quale è stato gettato un sasso non è più uguale a prima, anche dopo che l’ultima piccola onda provocata dall’urto si sia acquietata.
Il dolore è un grande maestro, perché attraverso il corpo ci dice che siamo vivi; poi ci attraversa, ci fa vibrare, e ci lascia cambiati. Rinasciamo dalla nostra momentanea imperfezione e nel nuovo presente riluciamo come oro. In partenza eravamo unici, dopo la “rottura” e la “riparazione” l’oro che ricorda il passaggio doloroso ci impreziosisce ulteriormente. Di fatto non c’è nemmeno un “prima”, un “durante” e un “dopo”, l’Oro è accessibile qui ed ora, sempre. Il dolore è qui per ricordarcelo… se ci divertiamo con la parola stessa, dol or re (inventandoci un’etimologia… mistica e non linguistica), in esso ritroviamo la sofferenza, certo, ma anche l’oro e la nostra regalità interiore…
L’etimo “vero” è da cercare nella radice sanscrita , dividere, e dalas, parte, frammento, fazione. Si parla ancora di qualcosa di rotto… e riparabile!
Per illustrare l’unicità delle ferite e delle cicatrici di ognuno di noi, e la bellezza misteriosa che rivelano se le ascoltiamo, ecco una serie di piatti di ceramica bianchi (il piatto di partenza è sempre molto simile) rotti e riparati secondo i principi del Kintsugi, ad opera dell’artista ceramista Jean-Pierre Berardaud… creano un vero e proprio alfabeto della rinascita nella Bellezza…

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Piatti kintsugi
Artista: Jean-Pierre Berardaud

Il Kintsugi è filosoficamente nutrito dal concetto di non-mente – mushin in giapponese, wu xin in cinese 無心 – ossia dalla capacità che noi tutti abbiamo di abbracciare ciò che ci accade – compreso il dolore – con un cuore aperto, spazioso, senza confini. È una forma di “spensieratezza” profonda, che non è indifferenza, e nemmeno superiorità, ma compassione. La mente-cuore diventa così grande e magnanima da non giudicare neppure le ferite, e neppure chi le ha inferte (e spesso ci feriamo da soli!); è come fare un “passo indietro” interiore per guardare le cose con quella distanza minima necessaria da vederle non separate dal Tutto, dalla Vita nella sua interezza e bellezza. È la solita vecchia storia: essere il cielo azzurro invece che correr dietro alle nuvole.

Ancora una volta il pittogramma originario di wu ci può venire incontro per una migliore comprensione; significa “non”, “senza” e anche “vuoto”, e per assonanza prende in prestito la grafia di un altro ideogramma (ecco qua il pittogramma antico)

wu-dancer! che si pronuncia allo stesso modo e che descrive la danza degli antichi sciamani wu intorno ad un palo… Non-mente vuol dire lasciare danzare il cuore xin al suo ritmo, senza l’interferenza disarmonica del chiacchiericcio mentale

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La nostra vita è un’opera d’arte di cui noi stessi siamo gli artefici… Dalle ferite risanate possiamo rinascere ad un’ottava superiore, più belli, più forti. E possiamo aiutare altri a guardare le proprie cicatrici con gli occhi dell’artista, del poeta, del musicista.
Anche le ostriche, spesso, vengono ferite da un sassolino, da un fastidioso granello di sabbia… non riuscendo ad espellerlo, cominciano a girarlo e rigirarlo tra le loro valve, cercando di renderlo meno spigoloso, più liscio, finché… nasce una perla.

pearl

 

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